Lettera n. 1
Di strane creature.
Forse continuerò a chiamarti così per tutta la vita, non so, spero di no, o forse sì… Ma è proprio per questo che ho deciso di scrivere a te, perché sei quel che sei. E, credimi, è raro trovare persone come te qui in giro, perché quasi nessuno è com’è, autentico e puro.
Rimanere quel che si è non ha niente a che fare con la crescita, ma con l’interazione che si ha con il mondo. “Venire al mondo“, infatti si usa dire, cioè venire a contatto con altri miliardi – non tutti, e menomale – di esseri umani. E quando si interagisce con gli altri, vuoi o non vuoi – di più la seconda – si cambia, perché gli altri sono fonte di ricchezza e anche di povertà, tra emozioni – le più svariate e impensabili -, stress – il più delle volte, gioia – anche se ci si lamenta sempre di non averne mai una, – sofferenza – così tanta che la gente pensa di essere nata solo per quella -, e poi, follia, tanta follia che, però, quando è sana non fa mai male.
Scrivo a te perché sono sicura che tu sia l’unica persona che possa comprendere ciò che voglio dire.
Non so se hai notato in questi ultimi dieci anni, cioè da quando sei qui tra noi umani, come siano soliti affrontare la vita queste strane creature che ti circondano. E per tanti anni, tra loro, ci sono stata anche io, fino a quando non sei arrivato tu. All’inizio non sono stata in grado di capirti subito. Sembravi un bambino come tutti gli altri, e invece… E invece, il tuo essere abilmente diverso mi ha spiazzata.
Sai cosa vuol dire essere abilmente diversi in un mondo in cui tutti vogliono distinguersi facendo, comportandosi, vestendosi e parlando tutti alla stessa maniera? Esatto, il paradosso di ogni barzelletta – esiste? -. C’è davvero tanto da ridere, e io sto continuando a farlo, perché a un certo punto ho capito che è questo il miglior modo di vivere la vita.
Anche io facevo parte di quella massa di gente, ma tu mi hai salvata. Anche io, come mi ha insegnato quella folla là fuori, credevo che tu, il tuo essere diverso, fosse un ostacolo per la mia vita, un limite.
«Certo, adesso la tua vita è cambiata. Dovrai dedicarti totalmente a lui».
«Sicuramente sei una donna forte!».
«E come pensi di lavorare? Non sarà facile trovare lavoro».
Sai quante persone mi hanno detto queste cose? E la mia reazione a queste affermazioni è sempre stata quella del lamento. Il lamento è quella cosa che ti parte dalle viscere – il pancino, per intenderci – e poi sale su, passa dalla gola sotto forma di mugugno, un mugugno che sembra quasi un canto, ma poi, all’improvviso cambia strada, prende completamente un’altra direzione e inizia ad assumere toni che suscitano, in chi ascolta, la voglia di trovarsi ovunque e in un altro tempo, tranne che lì in quel momento.
È una caratteristica tipica degli esseri umani, e anche io ne ho fatto esperienza. Ora, bimbo mio, io a quelle parole ci credevo. Le assorbivo, una a una, e pian piano diventavano mie. Vedi? È così che nascono le credenze – con tanto di mensole e vetrina -; è così che nascono i limiti. E nemmeno ce ne accorgiamo, avviene tutto in maniera naturale.
Come posso spiegarteli? Dunque, il limite è come un recinto, quello dove in genere si riuniscono le pecorelle, anche se in realtà è più simile alle sbarre di una cella di un carcere – ma tu non hai idea di cosa sia, menomale, e quindi, rimaniamo sul gregge. Ora, mentre il recinto viene costruito dai pastori, i limiti siamo noi esseri umani a costruirli, e ognuno li costruisce per sé e, di conseguenza, anche per gli altri. Tutti vogliamo essere liberi, eppure tutti ci chiudiamo nei nostri recinti. Assurdo, vero?
In inglese la chiamiamo “comfort zone“, una zona in cui ci si sente, appunto, confortati, protetti, lontani da novità che potrebbero sconvolgere l’esistenza. Anche se poi, è in quelle novità che si nasconde la libertà.
Ebbene, anche io vivevo in quella zona lì, una zona grigia e puzzolente, piena di pensieri flaccidi, di emozioni fiacche e ingobbite, credendo che tutto ciò che veniva dall’esterno fosse vero. Eh, bimbo mio, non tutto ciò che viene dall’esterno corrisponde alla verità, anzi, quasi nulla, ma non perché qualcuno abbia deciso di nascondercela – be’, forse un pochino anche quello -, ma perché ogni essere umano su questo pianeta ha una sua testa e quindi, pensa, pensa e pensa.
Smetterà mai di farlo? Eh no, mi sa proprio di no, salvo rare eccezioni. E tu sei tra queste. Beato te che non pensi e, bada bene: il fatto di non pensare è segno di grande intelligenza. Invece, noi esseri “non abilmente diversi”, cosiddetti “normali” – e sul concetto di normalità ci torneremo -, siamo orgogliosi di questa nostra grande capacità di pensare, perché ci permette di riflettere, di trovare soluzioni, di costruire, solo che questa parola è così tanto usata e abusata che adesso ha acquisito vari significati.
“Avere dei pensieri“, non vuol dire pensare, ma vuol dire essere preoccupati. Anche “stare in pensiero” vuol dire avere delle preoccupazioni. Insomma, il termine pensiero è spesso associato a quella che suole essere l’attività tipica di ogni essere umano: tenersi la mente occupata in anticipo e con tanto di ansia su una determinata situazione. In altre parole, gli esseri umani sono dei grandi registi che ogni giorno creano dei film mentali ambientati nel passato o nel futuro, quasi mai nel presente – e togli il “mai”.
«Ma cosa dici? Le mie preoccupazioni sono nel presente». Mi è stato detto. Il fatto è che “sembra” che siano nel presente, ma in realtà riguardano o un momento appena passato, magari di qualche minuto fa, oppure qualcosa che dobbiamo fare fra poco, quindi, nel futuro.
Ma il presente non coincide con il giorno di oggi, bensì – che bello il “bensì” – con l’attimo, qui, adesso. Tu sai di cosa parlo, vero? Lo sai benissimo perché tu vivi il presente, sei presente nel presente e solo in quello. Passato e futuro, non esistono per te…
(Continua… forse…)